Oceania Papua Marind-anim

Sesso, omicidio e antropofagia
nei culti della fertilità presso i Marind-anim
di Francesco Lamendola - 23/05/2008
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Arianna Editrice [scheda fonte
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Il mito del «buon selvaggio» è stato abbandonato da coloro sessi che lo avevano creato, nella seconda metà del XVIII secolo, mano a mano che i viaggiatori europei avevano modo di osservare più da vicino gli usi e i costumi dei popoli allo stato di natura che, specialmente negli arcipelaghi dell'Oceania, avevano inizialmente prodotto l'illusione ottica di una umanità felice, perché lontana dai vizi corruttori della civiltà. Il navigatore James Cook, ad esempio, osservò con i suoi occhi la preparazione di un indigeno per l'omicidio rituale a Thaiti, che in un primo tempo era apparsa agli Europei come la quintessenza del mito del Paradiso terrestre. Un altro navigatore, il francese Marion Dufresne, finì ucciso e divorato, insieme a parecchi dei suoi compagni, dai Maori della Nuova Zelanda che lo avevano ingannato per settimane, fingendo amicizia ed ospitalità mentre preparavano l'atto nefando (cfr. il nostro precedente saggio L'uomo e la malvagità, consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice, nel quale vengono forniti molti particolari su quella tragica vicenda).
Da allora, gli antropologi hanno cominciato a studiare il comportamento dei popoli nativi con occhio più spassionato, cercando di evitare ogni eccesso sentimentale (sia in un senso che nell'altro) e concentrandosi nello sforzo di capire il senso di usi, costumi, cerimonie, alla luce della visione del mondo complessiva, propria di ciascun popolo e di ciascuna tribù. Nel far ciò, essi si sono imbattuti in usanze ora gentili e delicate, ora incredibilmente barbare e feroci, almeno dal proprio punto di vista; e, senza potersi mai spogliare del tutto - come è logico - del proprio abito culturale e  dei propri valori morali, hanno tentato di descrivere e di comprendere, senza giudicarle, forme di vita lontanissime dalle nostre.
In questo senso, un'opera classica dell'antropologia contemporanea è Modelli di cultura di Ruth Benedict, che istituisce un confronto fra diverse società native improntate a valori, credenze e comportamenti estremamente diversi da loro, che variano da una grande mitezza e tolleranza a una fosca e sistematica aggressività. E anche di tale confronto ci siamo già occupati (nell'articolo Michel de Montaigne e il cannibale felice, sito di Arianna), così come del tentativo effettuato da uno studioso italiano degli Inuit, Silvio Zavatti, di delineare i confini e le caratteristiche di una geografia della mitezza (cfr. F. Lamendola, Cosa ci possono insegnare le società miti?, ancora sul sito di Arianna Editrice).
D'altra parte, se è compito dell'etnologo quello di spiegare - o tentar di spiegare - le ragioni di determinate usanze, sociali e religiose, dei popoli nativi, sine ira et studio (come, del resto, dovrebbe cercar di fare lo storico), crediamo sia compito del filosofo quello di riflettere su tali usanze in un senso generale, sì da ricavarne, se possibile, qualche utile acquisizione circa la struttura dell'animo umano, al di là delle differenze di tempo e di luogo. L'etnologo ribatterà che astrarre da tali circostanze è, appunto, il peccato fondamentale, quello che rende impossibile una vera comprensione dei fenomeni; ma noi riteniamo ce tale obiezione, se rivolta alla filosofia, sia infondata. I criteri di lavoro che sono propri delle cosiddette scienze umane - antropologia, sociologia, psicologia - non sono estensibili alla filosofia, e viceversa. Perciò, mentre verrebbe meno alla sua ricerca un etnologo che si preoccupasse continuamente di giudicare, da un punto di vista spirituale o etico, il perché generale di determinati usi e costumi, dovendo egli limitarsi a studiarne il come e, al massimo, il perché circoscritto, egli non dovrebbe avanzare obiezioni  al fatto che il filosofo prenda le mosse dalle sue ricerche antropologiche per arricchire la sua comprensione complessiva del fatto umano in quanto tale. Del resto, lo avevamo già fatto con l'osservazione della vita di un alveare, senza con ciò, crediamo, avere "invaso" il campo del biologo o dell'etologo (cfr. F. Lamendola, Quante cose può dire al filosofo la vita segreta delle api, sul sito di Arianna). Perché mai ciò non dovrebbe essere consentito quando ci si trova di fronte ai comportamenti di una società umana?
Ora, i riti orgiastici di taluni popoli nativi, come i Marind-anim della Nuova Guinea sud-occidentale, culminanti nel sacrificio umano e nell'antropofagia ai danni della vittima designata, appartengono ad un quadro di fenomeni culturali particolarmente controversi e imbarazzanti, specialmente se coesistono - come nel caso citato - con un atteggiamento generale di ospitalità e lealtà, che contrasta enormemente con essi. È come se ci si trovasse di fronte a una realtà dalla duplice faccia: l'una mite e cordiale, l'altra incredibilmente crudele e violenta. E la cosa più sconcertante, per la mentalità dell'uomo occidentale, è che quella violenza e quella crudeltà sono funzionali a quella mitezza e a quella cordialità, come è dimostrato dal fatto che, una volta aboliti i riti di sesso, omicidio rituale e cannibalismo, i popoli in questione mostrano i classici segni del decadimento spirituale: smarriscono la loro fierezza, si spengono lentamente e finiscono per venire totalmente assimilati dalla cultura dell'uomo bianco.

Scrive lo studioso tedesco Adolf Tüllmann nel suo libro Costumi sessuali dei popoli primitivi (titolo originale: Die Liebesleben der naturvölker; traduzione italiana di Luigi Coppè, Roma, Edizioni Mediterranee, 1961, 1963, pp.259-265):

Assai frequente è la promiscuità rituale presso i papua della Nuova Guinea. A sud della Nuova Guinea, presso i marind-anim e i loro vicini, esistono società segrete che praticano culti orgiastici e omicidi rituali. È inutile ricordare che manifestazioni del genere sono oggi severamente vietate, anche se non sono ancora del tutto scomparse.(…)
Hans Damm scrive a proposito dei loro riti: «manifestazioni assai singolari si svolgevano in occasione delle feste d'iniziazione dei giovani. In passato esse erano accompagnate da riti magici che terminavano sempre in orge sessuali aventi lo scopo di accrescere la fertilità della natura. Potevano partecipare alle cerimonie, che talvolta duravano diverse settimane, tutti i membri di una società segreta alla quale venivano ammessi tutti i papua adulti dietro pagamento di un certo quantitativo di conchiglie, di maiali o altro. Le società segrete erano guidate da un'idea religiosa, alla quale i membri della setta credevano o facevano finta di credere. Del resto essi celavano la loro vera attività dietro un velo di mistero, che serviva ad ingannare i non iniziati, le donne e i bambini».

la così detta "cattiva cerimonia", prevede il coito in pubblico di numerose coppie

A noi sembra molto interessante la precisazione secondo la quale i riti orgiastici avrebbero lo scopo di accrescere la fertilità della natura e, quindi, non sarebbero sorti unicamente per appagare la concupiscenza degli indigeni. In occasione delle "feste della fertilità" i marind-anim si sentono obbligati di eseguire la così detta "cattiva cerimonia", che prevede il coito in pubblico di numerose coppie. Dalle parole degli stessi indigeni, Nevermann [l'etnologo berlinese Hans Nevermann, autore di numerosi studi etnologici sui popoli tribali] poté rendersi conto che i marind-anim non approvavano le orge rituali, ma le consideravano indispensabili per non urtare la suscettibilità degli spiriti maligni, che avrebbero potuto far seccare le palme da cocco e le altre piante.
Nevermann scrive a pag. 9 del suo libro Söhne des tötenden Vaters: «Nessun popolo è stato giudicato in modi tanto diversi quanto i marind-anim, la più grande tribù della Nuova Guinea meridionale. La caccia alle teste spintasi sino alla Nuova Guinea britannica e all'interno della parte olandese dell'isola ha procurato loro una pessima fama. La ferocia dei loro riti segreti è veramente inaudita. Si dovrebbe ritenere, perciò, che i marind-anim siano degli autentici demoni, ma le cose non stanno proprio così. Tutti coloro che sono stati per lungo tempo in contatto con la tribù, sono rimasti colpiti dalla loro chiassosa e quasi eccessiva cordialità, dalla loro mitezza e dalla loro lealtà. Se non si conoscessero gli efferati episodi della caccia alle teste e degli omicidi rituali, si sarebbe quasi portati a credere che essi siano un popolo mansueto ed affabile.

 durante l'addestramento i ragazzi devono sottostare alle pratiche omosessuali degli adulti

Nessuno negherà la necessità di vietare la caccia alle teste, gli omicidi e l'antropofagia legati ai culti segreti e tutti gli altri delitti del passato. Purtroppo queste azioni, che noi troviamo indicibilmente ripugnanti, stimolavano la fantasia dei marind-anim, davano un contenuto ala loro vita e accrescevano la loro fierezza. Oggi bisogna salvare quanto di buono è Ancora rimasto nei marind-anim» (opera citata, pag. 187).
Nevermann riferisce anche un'usanza dei marind-anim strettamente collegata con l'accrescimento della fertilità e l'importanza del fuoco per i primitivi: «La gioventù maschile  e femminile dei marind-anim viene preparata separatamente alla solenne iniziazione e durante questo periodo di addestramento i ragazzi devono sottostare alle pratiche omosessuali degli adulti; soltanto alla fine essi vengono messi in contatto con le fanciulle. In precedenza gli anziani stabiliscono quali saranno il giovinetto e la giovinetta da immolare. Durante il rito finale, al quale prendono parte solo gli anziani, e in alcuni villaggi anche i neo-iniziati, il ragazzo e la fanciulla destinati al sacrificio vengono lasciati soli in una capanna appositamente preparata. Naturalmente i due si congiungono carnalmente : è questo lo scopo per cui sono stati messi insieme. Quando la gente in ascolto fuori della capanna è certa che la coppia è unita nell'amplesso, toglie i pali, già predisposti, che reggono la costruzione e le pesantissime travi del tetto precipitano sui poveri amanti schiacciandoli. Quasi contemporaneamente si spegne il fuoco sacro della tribù. Infine i due infelici sono dissepolti dalle macerie; i loro cadaveri vengono forati da una parte all'altra e attraverso tale apertura si fa passare un'asta di legno con la quale si accende il nuovo fuco della tribù. A conclusione dell'orrendo rito le due vittime vengono divorate, il loro sangue spalmato sugli alberi di coco e le loro ossa seppellite sotto le nuove palme in segno di buon auspicio».
La barbara usanza da noi citata, scomparsa solo recentemente, dimostra come i primitivi riconoscano uno stretto rapporto tra l'atto sessuale, la fertilità del terreno e il fuoco. Il cannibalismo ha poca importanza, a questo proposito; i papua mangiano i cadaveri soltanto perché pensano sia peccato sprecare la carne fresca.
Il professor Hans Nevermann di Berlino e il dott. Paul Wirz di Basilea, deceduto alcuni anni fa nella Nuova Guinea, sono i più noti studiosi dei costumi marind-anim. Adessi dobbiamo la conoscenza della maggior parte degli usi di tale interessante popolo, ormai quasi definitivamente scomparsi in seguito all'opera di civilizzazione occidentale. I risultati delle indagini dei due studiosi non corrispondono sempre tra di loro, e ciò è dovuto al fatto che essi hanno preso in esame territori diversi abitati dai marind-anim; perciò non si può parlare di contraddizione, bensì di integrazione reciproca. Le descrizioni che riporteremo qui di seguito saranno tratte dagli scritti di Wirz. Presso i marind-anim e i loro vicini tutte le feste sono seguite da orge sessuali. Durante tali periodi - le feste durano settimane e anche mesi - ogni donna è a disposizione di qualsiasi uomo. Wirz esprime anche il dubbio che le feste in questione siano organizzate soltanto per trovare una giustificazione agli eccessi erotici. Oggi si è portati a credere piuttosto che codesti culti abbiano un'autentica base religiosa e che le orge ne siano solo un complemento. Purtroppo questo dubbio non potrà essere chiarito definitivamente, giacché il governo coloniale, sin dal 1920, ha trasferito i marind-anim e i loro vicini in villaggi modello. Da allora i culti e le società segrete appartengono al passato.
Non siamo in grado di illustrare tutti i culti e le società segrete, perciò ci limiteremo a parlare dei marind-anim e dei loro riti più importanti. In primo luogo va ricordato il culto Majo, il cui scopo è l'accrescimento della fertilità e il rispetto delle antiche tradizioni e dei miti. Il cannibalismo e gli eccessi sessuali sono parte integrante di esso. La grande festa Majo dura in totale cinque mesi, durante tale periodi si accolgono i giovani novizi nelle società segrete e si insegnano loro i misteri della vita. I cibi degli iniziandi sono spesso mescolati con lo sperma al fine di trasformare rapidamente in adulti i ragazzi e le fanciulle e di ammetterli alle orge sessuali che si svolgono tutte le notti nella foresta. Durante la cerimonia finale tutti abusano di una giovanetta (generalmente rapita a un'altra tribù), che viene poi uccisa, arrostita e divorata, mentre con il suo sangue si imbrattano le palme. Il tutto è seguito da un'orgia sessuale nel corso della quale cade ogni barriera di consanguineità, di gruppo totemico o di età. La caccia alle teste rappresenta, in un certo senso, l'epilogo della grande festa Majo.
Del culto sopra descritto sono noti, sino ad oggi, soltanto la metà dei riti. Essi sono ormai definitivamente scomparsi e i vecchi non ne parlano affatto. Molto simile al culto Majo, un tempo largamente diffuso, è il culto Imo praticato solo nei territori vicini alle coste. Le notizie sui riti Imo sono ancora più scarse di quelle dei riti Majo, forse perché ad essi non possono mai partecipare le donne e i bambini. Gli ininterrotti eccessi sessuali si svolgono nel bosco che circonda le case-club. La cerimonia finale prevede l'uccisione di una giovane coppia, che viene gettata in un fosso, e, dopo essere stata alla mercé delle brame sessuali di tutti gli adepti, viene trucidata durante il coito. Come d'uso, le vittime vengono divorate, poi i guerrieri vanno acacia di teste e durante tali scorribande cercano anche di rapire bambini e fanciulle destinati ad essere immolati in futuro.
Il terzo importante culto segreto dei marind-anim è il Rapa, che ha lo scopo di rinnovare il fuco sacro della tribù e, nel territorio preso in esame da Wirz, assume forme diverse da quello descritto da Nevermann. Forse le cerimonie studiate dall'etnologo berlinese rappresentano una fusione del culto Rapa e del culto Ezam, che illustreremo in seguito. In occasione dei riti Rapa la vittima degli abusi sessuali è una fanciulla rapita nello stesso villaggio a cui appartengono i seguaci. Non è stato accertato se il corpo della giovinetta venga trafitto con un'asta, destinata ad accendere il fuoco, quando ella è ancora in vita o dopo essere stata uccisa. Con il nuovo fuoco si accende anche una specie di falò sul quale si arrostisce la fanciulla. Sulla brace ardente viene collocato inoltre un maiale, al quale viene praticato un foro nella pancia per far spruzzare fuori il grasso bollente, che viene incendiato per farlo apparire come una fontana di fuoco. Da lontano le donne e i bambini del villaggio guardano con timore l'alta fiamma e mormorano: «È il demonio Rapa». Durante il banchetto finale gli indigeni mangiano le carni della fanciulla e del maiale. Il sangue e le ossa della vittima sono utilizzati come negli altri culti.
Wirz illustra inoltre la società Sosom la cui diffusione varca i confini dei territori dei marind-anim. Questa società segreta esclude totalmente la presenza delle donne: neppure le vittime sono fanciulle e le orge sessuali si svolgono tra uomini. Si tratta, in sostanza, di un'unione a carattere omosessuale. Gli uomini sono dediti alla pederastia e ogni ragazzo, prima di venire ammesso tra gli adulti, deve essere per un anno l'amante di un guerriero.
Infine dovremmo accennare al culto Ezam, praticato in un territorio molto limitato. Wirz poté assistere personalmente ad alcune cerimonie, ma venne escluso dal rito finale. In una grande capanna erano assiepati gli uomini del villaggio., l'ambiente era illuminati unicamente dai bagliori di alcune fiaccole; in fondo si scorgeva uno strano podio sopra il quale erano sospesi due grossi tronchi d'albero poggiati su puntelli provvisori. Nel bosco vicino si svolgevano le orge sessuali e ogni volta che un uomo aveva finito di copulare tornava nella capanna e gettava un ramoscello in un angolo, quale simbolo del coito eseguito. A poco a poco il mucchio di ramoscelli assunse proporzioni notevoli, l'eccitazione erotica dei presenti si accentuava sempre più e i discorsi  degli indigeni divenivano assolutamente osceni. Infine venne introdotta una fanciulla completamente nuda e unta di grasso che fu fatta sdraiare sopra il podio. Il resto della cerimonia è stato raccontato dai nativi, perché a questo punto Wirz venne pregato di allontanarsi. Sembra che la giovane venisse posseduta da tutti i presenti e, mentre il giovanotto prescelto per il sacrificio copulava con lei, si togliessero improvvisamente i puntelli dei due tronchi d'albero facendoli precipitare sulla coppia, schiacciandola. Le due vittime venivano poi divorate - come negli altri riti - e all'orrendo banchetto seguiva la caccia alle teste.
Nel volume di Paul Wirz Die Marind-anim von Höllandisch-Neu Guinea (I Marind-anim della Nuovva Guinea olandese), pubblicato nel 1925, si trovano anche altri esempi di orge sessuali, ma noi riteniamo che quelli da noi citati sano sufficienti. Non è ancora stato chiarito se i riti orgiastici venissero originati da brame erotiche o se le orge sessuali fossero soltanto un complemento di culti magici in onore di divinità pagane. Molti studiosi si sono interessati a questo interessante problema, tra i tanti possiamo citare: Adolf E. Jensen Das religiöse Weltbild einer frühen Kultur (Stuttgart, 1948) e Mythos und Kult bei Naturvölkern (Wiesbaden, 1951), e Erhhard Schleiser Die Melanesischen Geheimkulte (Göttingen, 1958).

Certo, la domanda di Adolf Tüllmann se i culti orgiastici e sanguinari dei Marind-anim nascano da sentimenti puramente "egoistici" di concupiscenza, oppure da sentimenti "altruistici" volti alla  preservazione magica della fertilità, è una domanda legittima e interessante, ma, dal nostro punto di vista, riveste un'importanza relativa.
Quel che dovremmo chiederci è da dove provengano le pulsioni che rendono possibile lo svolgimento dei riti in questione: i quali comprendono una prima fase di promiscuità sessuale sfrenata (e, in certi casi, esclusivamente omosessuale); una seconda fase di violenza omicida e di cannibalismo; e una fase finale di caccia alle teste senza quartiere, ai danni di membri delle tribù vicine. Inoltre, domanda quanto mai scomoda, dovremmo chiederci come va che tali pulsioni contribuiscano alla stabilità sociale del gruppo ma anche, apparentemente, alla stabilità psicologica del singolo individuo, come abbiamo più sopra osservato.
Incominceremo osservando che qui siamo veramente in presenza di un grande mistero: il mistero del cuore umano, colto nei suoi chiaroscuri più violenti e sconcertanti. Non è solo un modo di dire quando si afferma che esso è capace di attingere gli abissi più contrastanti di male e di bene, di crudeltà e di abnegazione. Non solo gli etnologi, ma anche i missionari che hanno fatto tale esperienza, sono rimasti impressionati dal fatto che degli individui capaci di sentimenti nobili e delicati come l'amicizia, la generosità, la lealtà, potessero poi trasformarsi, ad esempio durante la caccia alle teste, in esseri spietati e assetati di sangue.
André Dupeyrat, un energico e intelligente missionario francese, che trascorse più di venti anni fra le popolazioni meno civilizzate della Nuova Guinea, racconta come i membri di una tribù, che avevano dato ripetute prove di conoscere i sentimenti dell'onore e della benevolenza, erano poi capaci di sfracellare la testa di un bambino di una tribù nemica contro un sasso, per gustarne il cervello crudo come una leccornia (cfr. il suo bellissimo libro Nel paese degli uccelli paradiso, da noi già più volte citato in precedenti articoli).
Qui non si tratta, evidentemente, di distribuire pagelle ai diversi popoli della Terra e di istituire graduatorie di civiltà: oltretutto, noi occidentali non ne saremmo degni: non dopo aver scritto pagine come quelle di Auschwitz, Hiroshima o Dresda. Né si pretende di giudicare usi e costumi diversi dai nostri, sulla base delle nostre convinzioni e del nostro retaggio culturale: impresa, evidentemente, contraddittoria in se stessa. Tutto quel che vorremmo fare è cercar di capire se aveva ragione Freud, quando affermava che la censura imposta dalla società agli impulsi libidici conduce fatalmente alla nevrosi; e se aveva ragione Cioran quando diceva che l'infelicità dell'uomo occidentale è quella di chi non può spaccare la testa al suo nemico a colpi di clava e poi, possibilmente, mangiarselo.
Eppure, è un fatto che la malattia mentale e gli stessi disturbi della personalità, almeno così come noi li intendiamo, sono praticamente assenti dal panorama antropologico dei popoli nativi. Con alcune eccezioni, come la pazzia improvvisa e violenta che colpisce i membri di certe società malesi, i cosiddetti "primitivi" godono in genere, in confronto al tipico individuo occidentale, di un  migliore equilibrio psicologico, di una maggior carica di ottimismo e buon umore, di una più ampia disponibilità ad accettare i casi della vita, prendendoli "con filosofia".
Dobbiamo concluderne che la civiltà, proprio per il fatto di sviluppare il senso morale, genera infelicità, frustrazione, nevrosi; e che, viceversa, infrangere tutti i tabù, abbandonarsi alla sfrenatezza sessuale, all'omicidio e all'antropofagia - sia pure nelle forme ritualizzate di un culto religioso - fornisce un apporto positivo alla vita emozionale e al benessere psicologico?
Posta in questi termini, la domanda rischia di essere fuorviante.
In primo luogo, i membri di una società tecnologica non potrebbero regredire al livello spirituale di una società tribale, anche se lo volessero; e, se tentano di farlo - ad es., aderendo a società segrete e sette di vario genere - non ritrovano certo un rapporto spontaneo con il mondo della natura e degli dei, ma sommano alla nevrosi della "civiltà" la nevrosi di una rinata barbarie.
In secondo luogo, non è dimostrato che lo sviluppo del senso morale sia un prodotto diretto e inevitabile della civilizzazione, poiché, come dicevamo più sopra, esistono popoli "primitivi" sommamente miti, gentili e pacifici: popoli che educano con amore ma anche con bonarietà e indulgenza i loro figli, e che non hanno mai sostenuto delle guerre se non per difendersi da aggressioni esterne. Di contro, è fin troppo facile notare che i popoli altamente civilizzati sono capaci di giungere a un livello di pervertimento morale, quale raramente si incontra fra i cosiddetti "selvaggi".
C'è un aneddoto piuttosto calzante che può permetterci di chiarire efficacemente quest'ultimo punto. Al viaggiatore piemontese Maurizio Leigheb che, con un'amica olandese, stava conversando con un membro di una tribù di ex cacciatori di teste dell'Indonesia (lo racconta nel suo bel libro Caccia all'uomo), quando costui venne a sapere che gli Europei, durante la seconda guerra mondiale, uccisero milioni di individui nei campi di sterminio, si sentì rivolgere l'ingenua e meravigliata domanda: «Così tanti! E non ne raccolsero poi le teste, per farne dei trofei?».
E allora?
E allora non è il grado di civiltà (ammesso che si possa misurare una cosa del genere) a determinare lo sviluppo del senso morale degli esseri umani, né la repressione degli istinti da essa operata a provocare, necessariamente, uno stato di disarmonia, da cui fatalmente l'individuo non sarà mai più in grado di uscire. La civiltà, qualunque cosa si intenda con questa espressione, aiuta a sviluppare il senso morale, ma di per sé non lo determina. Sappiamo, ad esempio, dai graffiti e dalle pitture rupestri del Sahara - che un tempo era verdeggiante e fittamente popolato -, che le antichissime civiltà nord-africane ignoravano la guerra, ma conoscevano un livello di espressività artistica e, verosimilmente, una capacità di godere le gioie della vita, quali poi non si sono più mantenute (cfr. il nostro articolo Il mistero della « pietra verde » del Sahara rimanda a quando il deserto era un giardino, sul sito di Arianna).
D'altra parte, è innegabile che le limitazioni imposte dalla civiltà al mondo degli istinti possono avere un effetto frustrante sugli individui (qui Freud sfondava veramente una porta aperta); però il quadro non sarebbe completo se non aggiungessimo che, contemporaneamente, la civiltà è in grado  di offrire tutta una serie di piaceri e di gratificazioni - a cominciare da una raffinata capacità di godimento spirituale - che possono ampiamente controbilanciare lo svantaggio della repressione di alcuni impulsi elementari, specie di natura sessuale. Per cui non sarebbe esatto sostenere che gli inevitabili effetti della civiltà sono la nevrosi e l'infelicità degli individui; non più di quanto sia esatto affermare che l'inevitabile conseguenza dell'uso dell'automobile sono gli incidenti stradali, o che l'inevitabile conseguenza della diffusione della televisione è la manipolazione mentale di tutti i cittadini. Questo vorrebbe dire guardare le cose con un occhio solo, mettendo a fuoco soltanto una parte del quadro, ed evidenziando solo alcuni elementi di esso.
Il fatto è che l'essere umano, non appena raggiunge il livello dell'autocoscienza - cosa che può avvenire tanto in una tribù di cacciatori preistorici, quanto in una città supertecnologica del terzo millennio - diviene persona e, con ciò stesso, soggetto capace di libere scelte morali, sia pure in senso relativo e non in senso assoluto. Una persona è un essere spiritualmente evoluto, che progetta la propria vita in funzione di un piano esistenziale guidato da valori, e che conosce le possibili conseguenze dei propri atti I valori servono, appunto, a indicare la direzione delle scelte che via via si presentano alla persona; la coscienza delle possibili conseguenze, serve a motivare le scelte non solo rispetto ai fini da raggiungere, ma anche rispetto ai mezzi atti a conseguirli.
Questo è il destino al quale non ci possiamo sottrarre: quello di essere soggetti dotati di libera volizione e, pertanto, capaci di scegliere non solamente il bene, ma anche il male. E si può scegliere il male andando a caccia di teste nella foresta della Nuova Guinea, oppure speculando in borsa a Londra o a New York, in modo da coinvolgere numerose altre persone nelle nostre scelte egoistiche e prevaricatrici.
Perciò, l'insegnamento che potremmo trarre dallo studio dei riti di fertilità presso i Marind-anim potrebbe essere questo: bene è ciò che potenzia la vita, purché non contraddica il principio fondamentale del rispetto della vita stessa; male il suo contrario. E non c'è altro da dire.