REPORTAGE: L' ALTRA AMERICA. Sulla punta estrema del Sudamerica vivono le ultime discendenti degli «indios delle canoe»: «Che pena che tutto debba morire così»




(dal Corriere della Sera del 22 aprile 2001)

Due sorelle, quel che resta di un popolo

Nella Terra del Fuoco a casa di Ursula e Cristina, uniche superstiti della tribù Yágan. Anche dell' etnia Onas rimane una sopravvissuta: i suoi avi furono uccisi con carne di balena che era stata avvelenata dai bianchi.

REPORTAGE Sulla punta estrema del Sudamerica vivono le ultime discendenti degli «indios delle canoe»: «Che pena che tutto debba morire così» L' ALTRA AMERICA Due sorelle, quel che resta di un popolo Nella Terra del Fuoco a casa di Ursula e Cristina, uniche superstiti della tribù Yágan di ETTORE MO USHUAIA (Terra del Fuoco) - Le due anziane affabili signore che mi hanno appena accolto nella loro casetta a un piano sul Canale di Beagle sono sorelle: ma oltre ad avere lo stesso sangue, Ursula e Cristina Calderón sono anche le uniche superstiti di una tribù australe - quella degli Yágan - che, a morte loro, si estinguerà del tutto. Nella prima metà dell' Ottocento, quando Darwin approdò alla Terra del Fuoco per trovare conferma alla sua teoria sull' origine della specie, gli Yágan (detti anche Yánana) erano poco più di 3 mila: li chiamavano indios delle canoe perché vivevano giorno e notte sull' acqua rincorrendosi nel dedalo dei canali e del vento. Ma epidemie e malattie portate dall' uomo bianco e, soprattutto, la pulizia etnica intrapresa dai «colonizzatori» provvidero alla loro decimazione, che fu rapida e inesorabile. L' ultimo a scomparire sarebbe stato, nel 1977, Felipe, il nonno di Ursula e Cristina. Altrettanto inesorabile la sorte degli altri gruppi indigeni fuegini (così vengono chiamati gli abitanti della Terra del Fuoco) come gli Alacalufes e i Solkenan che, da Magellano in poi, esploratori, missionari e avventurieri del Vecchio Mondo vedevano sbucare dalle foreste ad ogni approdo. Grande tribù quella dei Solkenan, meglio noti come Onas: uomini giganteschi, erculei, preferivano alla canoa degli Yánana la caccia a piedi, dove non c' era scampo per la selvaggina. Preda più ambita, il guanaco, cioè il lama australe che aveva in sé la bellezza e la virtù degli altri quadrupedi, il nitrito del cavallo, la lana della pecora, il dorso del cammello, il passo del cervo, e anche la scaltrezza del demonio. Ma più passavano gli anni, più diradavano le squadre dei cacciatori bipedi, anche se il guanaco continuava a morire squartato nei mattatoi degli allevatori bianchi. Occorre la lente d' ingrandimento per valutare, ora, dati sempre infidi e contraddittori: non si rimane tuttavia sorpresi scoprendo che, in quanto a sopravvivenza, gli Onas stanno anche peggio degli indios delle canoe. Sbarcando a Ushuaia, la città dove finisce il mondo, è quasi un rito obbligato bussare alla porta di Enriqueta Gastilumendi, 88 anni, ultima discendente dei cacciatori di guanaco. Ma a differenza di Ursula e Cristina, la quasi nonagenaria signora è di sangue misto: poiché se la madre, Maria Felisa Cusanchi, era una pura Selkenan dal fondo dei secoli, il padre, come rivela chiaramente il cognome - Gastilumendi -, veniva d' Oltreoceano, uno dei tanti baschi depositati dal mare in questa gelida periferia antartica alla fine dell' Ottocento. Eppure - basta chiedere in giro - non sembra esserci in tutta le Terra del Fuoco più fiera, autentica, inossidabile rappresentante di una razza in agonia di doña Enriqueta. È Ona dalla testa ai piedi: lo è nei pensieri, nelle emozioni, nell' idioma. Questo, il ritratto che emerge dalla miriade di testimonianze raccolte sul posto, anche se non è stato possibile verificarlo di persona: perché la vecchietta, con l' aiuto di un entourage che la protegge dall' assillante curiosità dei media, è sempre riuscita a depistarci. Infatti, se la cercavi nella sua abitazione di Ushuaia, sulla centralissima Avenida San Martin, ti dicevano che s' era rifugiata in campagna, sul lago di Fagnano: ma da lì ti rispedivano in città e indicavano qualche altro «rifugio», ancor più lontano, dove, naturalmente, non c' era traccia dell' araba fenice. In realtà, Enriqueta non ha bisogno di parole per raccontare la saga millenaria della sua gente, avendola incisa e scolpita nel legno per oltre mezzo secolo, come testimoniano migliaia di bassorilievi e statuette - di uomini, animali, piante e fiori - disseminati nei musei e nei negozi di souvenirs della Terra del Fuoco. Prolifica anche come sposa, ha avuto dal suo primo marito (spagnolo) ben nove figli, che le hanno regalato a loro volta uno stuolo di nipoti e pronipoti, trentuno in tutto, nelle cui vene scorre un' esplosiva miscela di sangue multirazziale, fuegino-ona-ispano. Le sorelle Calderón stanno radicate come due vecchie querce nell' isola di Navarino, sulla sponda meridionale di Beagle, che è il confine azzurro fra i due territori della Terra del Fuoco: quello argentino - capitale Ushuaia - e quello cileno, che ha in Puerto Williams l' altra caput mundi sull' Antartico. Qui, molto più ancora che a Ushuaia, a suo modo pulsante e vitale, hai la sensazione (l' angoscia?) di essere arrivato alla periferia estrema del mondo: altri due passi, gli ultimi, verso la linea dell' orizzonte ed ecco precipiti giù nel vuoto. Come tutte le altre, la casa dove abitano Ursula (76 anni) e Cristina (73) è di legno e lamiera, scorticata dalle tempeste che spazzano incessantemente l' isola: davanti, un orticello d' erbacce, una decrepita cabina telefonica (ma non mancano i cellulari a Puerto Williams) e più giù, sulla sponda del canale, qualche barca da pesca tirata in secco da anni e qui e là le vertebre di un paio di canoe putrefatte. Unico segno di vita, un bambino che pedala felice in bicicletta. L' acqua per il tè bolle sulla stufa di ghisa a cilindro, emettendo sibili strazianti, e Ursula, seduta accanto, racconta di quella volta (era il 1987, se ho capito bene) che andarono a Punta Arenas a vedere il Papa: e getta un' occhiata affettuosa alla parete dove sono appesi un ritratto di Giovanni Paolo II e una corona del rosario. «La nostra tribù ha le sue credenze, la sua religione, e i suoi riti - spiega - ma fin da bambina io ho sentito parlare di Gesù e della chiesa». Il papà venne a mancare quando Ursula aveva 7 anni: «Ma il nonno - dice Cristina - ci raccontava dei tempi antichi, dei nostri antenati che passavano la vita intera sulle canoe, a pescare. Il pesce è ancora la nostra ricchezza, ce n' è fin che se ne vuole in questo mare, ed è molto buono. I nostri mariti sono pescatori, come quasi tutta la gente in riva al Beagle». Il fatto di essere le ultime due Yágan nella storia della razza umana ha consentito alle sorelle Calderón di «mettersi - per così dire - in proprio», contribuendo a rimpolpare, anche con un po' d' artigianato spicciolo, i magri introiti provenienti dalla pesca. «Non siamo mica bestie rare allo zoo», si scherniscono con un residuo di vanità senile: ma non possono negare che, quando giornalisti e fotografi se ne vanno, qualcosa resta sempre nel cavo delle loro mani avvizzite. «Gli ultimi erano giapponesi», informano, non poco orgogliose di essere al centro della curiosità internazionale. La miseria, più che i cicloni, ha sempre giocato un ruolo disastroso in questa striscia di terra in fondo al Cile, nel più profondo del profondo sud: una situazione - riconoscono gli Yágan-Yánana - rimasta sostanzialmente immutata anche durante il regime di Pinochet, che dalle due sorelle viene in parte scagionato. «Se ha fatto quello che dicono che abbia fatto - interviene Cristina - è giusto che paghi. Ma per noi non è cambiato nulla: se mai, abbiamo avuto qualche beneficio». Ci sono stati grandi dolori in famiglia. Uno particolarmente straziante. Alla parete c' è la foto, sfumata ai lati come quella sui ceppi dei cimiteri, di Edith, figlia di Ursula, morta suicida a 17 anni. Delusione amorosa? Non osiamo indagare. Ciò che ora si avverte è un malessere diffuso, la malinconia, forse, di chi sta contemplando il proprio definitivo tramonto. «Ho cercato di insegnare la nostra lingua ai miei nipotini, ad Alvaro e Stefano - lamenta Ursula -: ma non la vogliono imparare, non la parlano più. Que pena, señor! Che pena che tutto debba morire così». È invece sopravvissuta, nonostante le atrocità del clima e i disagi di un territorio così vasto e ostile, la razza di quelli che, dopo Magellano, hanno sfidato il mare e gettato l' ancora in questi lidi. A confermarlo, sull' altra sponda del canale - 85 chilometri ad est di Ushuaia -, c' è l' estancia Harberton: eretta nei primi mesi del 1887, la casa (muri bianchi, tetto rosso, porta e persiane verdi) è il più antico edificio della Terra del Fuoco, ma grazie ai restauri e a periodiche rinfrescate ostenta persino una certa baldanza giovanile. Eletta monumento storico nazionale, è ormai un museo aperto ai turisti, che vi accedono dalla Ruta 3, la strada più a sud del mondo, e si aggirano con reverenza tra le meraviglie botaniche del giardino, il padiglione ornitologico con ogni specie di uccelli australi, la stalla per la tosatura, le case dei contadini, il capanno dove è in bella mostra il battello costruito dal primo uomo bianco nato sulle sponde del Beagle e su cui vigila imperterrita la carcassa imbalsamata di un condor, che pare ancora vivo e rapace. Vi andò ad abitare, con la sua famiglia, la moglie, sei figli, il pastore anglicano Thomas Bridges che il 1° ottobre del 1871 era sbarcato ad Ushuaia, come ricorda il figlio Lucas nel suo libro «El último confin de la Tierra», 500 pagine di affresco autobiografico dalla fine dell' 800 alla metà del secolo scorso. «Con la devozione di un san Francesco d' Assisi e la temerarietà di un David Crockett», leggo nel reportage di un inviato de La Nación, Héctor D' Amico, il reverendo Thomas si lancia in una frenetica campagna evangelizzatrice fra le tribù degli Yámanas e degli Onas, che erano allora gli unici abitanti della regione. Gli indios finiscono con l' affezionarsi a questo missionario disinteressato, che non li sfrutta o li perseguita come avevano fatto le prime orde dei colonizzatori bianchi (anche in nome della Santa Croce), ma al contrario impara la loro lingua e ne redige un dizionario con oltre 32 mila vocaboli, oggi reperibile al British Museum di Londra. Riesce anche ad appianare i conflitti, spesso sanguinosi, fra i due gruppi indigeni e il governo argentino (che dal 1884 ha piena sovranità su quella parte dell' isola), lo ricompensa offrendogli 20 mila ettari di terra sulla sponda occidentale del Beagle: scelga lui la località. Thomas non ha dubbi: ha messo gli occhi su una baia stupenda all' estremità del canale, davanti all' isola di Navarino. Ed è proprio lì che un mercantile proveniente dall' Inghilterra scaricherà, pezzo su pezzo, la casa prefabbricata che gli ha costruito laggiù il suocero, carpentiere: si chiamerà Harberton, come il paese dove è nata sua moglie Mary Ann, nel Devonshire. Ma sarebbe fuori luogo aspettarsi, entrando nell' azienda del pastore anglicano, il clima stagnante, la sonnolenza e, soprattutto, quell' odore di polvere e muffa tipici dei musei. In fondo, si tratta sempre di una fattoria, con le pecore, le mucche, i cavalli al pascolo e il tanfo dei maiali intorno. Non stanno certo inamidati nella leggenda, i discendenti di padre Thomas, che sembrano avere ereditato il carattere, lo spirito, la scorza dura dei pionieri: più di ogni altro, Thomas Goodall, Tommy per gli amici, pronipote del missionario, nato 68 anni fa ad Edimburgo, che è il manager-padrone dell' azienda. Sgravato dal compito di proselitismo, efficacemente assolto più di cento anni fa dal suo avo, Tommy si occupa prevalentemente dell' allevamento e dei lavori agricoli. Alto, taciturno e un po' ruvido come sanno essere gli scozzesi, non ama intrattenersi a lungo coi giornalisti, che considera perditempo e cacciaballe. È difficile dargli torto. Lamenta che le pecore non sono più un buon investimento per la «caduta vertiginosa» del prezzo della lana e così, di anno in anno, il coro dei belati e dei campanacci si è molto affievolito. A gestire il museo e la sala da tè Manacatush ci pensa la moglie, Natalie, una prosperosa signora nordamericana, biologa, esperta in cetacei, che, affascinata dal libro di Lucas Bridges, decise di trasferirsi in Patagonia e poi sulla Terra del Fuoco, dove avrebbe messo le radici. E qui la troviamo, tra libri, foto, cartoline, souvenir: ma si spinge anche in cucina, per accertarsi che le specialità locali, destinate ai visitatori, siano cucinate al meglio. La sua competenza ed esperienza didattica la portano non di rado lontano da Harberton: nelle università dell' Argentina o del Cile, o anche negli Stati Uniti e in Nuova Zelanda. Ma lo fa malvolentieri. Eppure questa è una terra non particolarmente ospitale. Sul dorso di una collina, in prossimità dell' azienda, ci si imbatte in un albero che, meglio d' ogni altra cosa, potrebbe simbolizzare la violenza degli elementi in questa periferia australe: la sua chioma, piegata da un lato e strapazzata dal vento patagonico, rasenta quasi il terreno e così rimarrà per il resto dei suoi giorni. C' è anche una battuta ingrata che si tramanda da secoli: qualcuno avrebbe irriverentemente insinuato che Dio, fabbricati i cinque continenti e ormai esausto, abbia starnutito e sputato. E che proprio da quello sputo sia nata la Terra del Fuoco. Mentre scrivevo queste parole, ho sentito il rev. Thomas Bridges rivoltarsi disgustato nella tomba. Avesse prestato orecchio ai giudizi di scienziati e navigatori sugli abitanti delle isole scaturite dallo starnuto del Padreterno, il missionario inglese non sarebbe mai sbarcato in queste solitudini. «Non si può credere che siano nostri simili» aveva scritto Darwin dopo la prima spedizione nel 1832. E mezzo secolo prima, il tedesco Georg Foster che accompagnava il grande nocchiero James Cook descriveva Yámanas e Onas come una «rara miscela di stupidità, indifferenza e pigrizia», mentre per il francese de Bougainville erano, ad eccezione dei giganteschi Onas, «piccoli, brutti, magri, puzzolenti: le creature più miserevoli della terra». Una razza simile non aveva diritto alla sopravvivenza, ripugnava all' olfatto del civile Occidente. Comincia così la caccia agli indios, che verranno spazzati via come i pellirossa nelle riserve del Nordamerica. Ogni metodo è buono. Centinaia di Onas affamati moriranno abbuffandosi attorno a una balena abbandonata sulla spiaggia, dentro cui i bianchi avevano iniettato veleno. Manciate di monete d' oro vengono offerte a chi porta «organi indigeni», orecchi, testicoli, seni: commercio in cui si distinguono, per lo zelo, un certo Julius Popper, ingegnere romeno che in sei anni diventerà, con le sabbie aurifere, l' uomo più ricco della Terra del Fuoco; e lo scozzese MacKlennan, detto anche «chancho colorado» (porco rosso), che invita ad un banchetto cinquecento Selkenam e li stermina a fucilate; altri poveracci vengono esibiti in gabbia, come cannibali, all' Esposizione Universale di Parigi. Ushuaia, città di frontiera cresciuta alla rinfusa tra la baia e la quinta dei monti Martiales, sembra aver sepolto questo angoscioso passato e vive alla giornata: né basta la sagoma massiccia del carcere, trasformato in museo nel ' 47, a ricordarle il suo destino di colonia penale (risalgono al 1898 i graffiti dei primi galeotti), o di Cayenna dell' Argentina, popolata di assassini, ladri, prostitute, corsari come il napoletano Pasqualino Rispoli, detto l' ultimo pirata del Canale di Beagle, che nel ' 18 - racconta Bruce Chatwin - aiutò a fuggire uno degli ergastolani, l' anarchico russo Simon Radowitzki. Ed ora me la batto anch' io. Per accomiatarmi da Ursula e Cristina e anche da doña Enriqueta, mi fermo un attimo in una piazzetta davanti al monumento dedicato a «el Indio». È tutto quanto rimane a ricordo della razza degli estinti.

     Ettore Mo